28 settembre giornata internazionale per l’aborto libero sicuro e gratuito. Una data che ancora una volta rappresenta uno schiaffo in piena faccia per il variegato mondo reazionario ma non solo. Se infatti la giornata contro la violenza sulle donne viene trasversalmente accolta da qualsiasi settore politico, addirittura dal papa e dalle destre, poiché ad essere celebrata è la rappresentazione della donna in quanto vittima che subisce, la giornata dell’aborto è un rospo difficile da digerire e non solo da tutti coloro che all’aborto sono apertamente contrari, ma anche da coloro che, imbevuti di cultura sessista, fanno una gran fatica a riconoscere l’autodeterminazione delle donne. Perché di questo si tratta. Poter abortire liberamente vuol dire decidere liberamente sul proprio corpo, gestire la propria sessualità, sottrarsi al destino riproduttivo assegnato alle donne come unico orizzonte naturale e possibile.
Una donna che subisce violenza rientra nello scenario patriarcale e sessista. Una donna che decide di non essere madre non vi rientra, sottrae il proprio corpo al dominio, al controllo, compie un atto sovversivo.
Le molte piazze per l’aborto libero sono giunte al 28 settembre grazie al lavoro di gruppi, collettivi e attivistx, nel silenzio totale dei media ufficiali. Per tutto il mese di novembre invece i soggetti più improbabili ci imporranno, attraverso campagne pubblicitarie massive, immagini di donne piene di lividi e cerotti che dovrebbero disincentivare la violenza, ma che in realtà comunicano la rassicurante immagine dello stato delle cose, mostrando chi comanda e chi subisce, ribadendo che il potere di far cessare o meno la violenza sta nelle mani, nei pugni e nei coltelli dei maschi, i soli che possono decidere.
Eppure noi lo sappiamo bene che le problematiche sono strettamente legate, che negare la libertà di abortire rappresenta una delle tante forme di violenza di genere, perché la negazione dell’accesso all’aborto, l’imposizione del ruolo riproduttivo, è uno dei modi in cui si esercita il controllo e il dominio sui corpi, e quindi è violenza. Lo sappiamo e lo riaffermiamo pubblicamente.
In Italia la libertà di abortire non c’è. Abbiamo tante volte ricordato come la legge 194 che regolamenta l’interruzione volontaria di gravidanza, risalente al 1978, fu frutto di un compromesso politico con settori clericali e reazionari che regalò il meccanismo perverso dell’obiezione di coscienza a chi voleva mantenere l’aborto un percorso a ostacoli talora inaccessibili, depotenziando la spinta sociale che non chiedeva regolamentazione, bensì una depenalizzazione che ponesse fine all’aborto clandestino. Da allora, la difficoltà a posizionarsi chiaramente sul terreno della difesa dell’aborto, cioè di una pratica sanitaria, non è mai venuta meno e anche oggi c’è un’enorme difficoltà, anche a “sinistra”, nell’affrontare la questione. Si parla con più facilità di eutanasia piuttosto che di aborto; e d’altra parte l’eutanasia è una libera scelta che appartiene anche agli uomini, quindi più accettabile, l’aborto no.
A fronte di questo limite storico, di questo difetto di fabbricazione e della perdurante mancanza di volontà politica, abbiamo una legge colabrodo. In Italia la media dell’obiezione di coscienza è di circa il 70%, ma in alcune regioni si arriva al 90%, nelle Marche quasi al 100%, e sono ben 11 le regioni in cui c’è almeno un ospedale col 100% di obiettori. Di fatto un servizio diversamente accessibile nelle varie zone d’Italia, in molte completamente negato: è come se, per l’accesso alla pratica sanitaria dell’aborto, la famosa autonomia differenziata fosse una realtà già da ben quarantasei anni. Senza contare la costante aggressione alla libera scelta anche laddove l’accesso all’aborto più o meno c’è, ma viene ostacolato dal giudizio, dalla condanna sociale, dalla colpevolizzazione. E gli ostacoli non sono solo di ordine morale, ma assumono violenta concretezza, una concretezza che di fatto limita l’accessibilità all’aborto. Oltre alla diffusione spaventosa dell’obiezione di coscienza tra ginecologi e personale medico di supporto, non scordiamo il vergognoso obbligo della settimana di ripensamento/scoraggiamento; i limiti imposti alle donne migranti con visto temporaneo, che hanno diritto solo ad alcune prestazioni sanitarie indispensabili tra cui l’aborto non rientrerebbe, se non facendo valere una vecchia sentenza mai recepita in modo generalizzato; il boicottaggio dell’aborto farmacologico e la sua limitazione (solo in Italia) a 9 settimane anziché a 12 come riconosciuta dalla OMS.
In questo scenario di inaccessibilità si inserisce la recrudescenza determinata dai recenti provvedimenti dei fascisti al governo, ben recepita da un sistema sanitario classista, sessista ed escludente. Ed ecco allora l’attivazione della “stanza dell’ascolto” all’ospedale S.Anna di Torino, ecco il finanziamento alla presenza delle associazioni antiabortiste nei consultori, ecco il dilagare della pratica vessatoria e inutile dell’imposizione dell’ascolto del battito fetale alle donne che si sottopongono a semplice ecografia, ecco le proposte di legge per il riconoscimento di personalità giuridica al feto, ecco la cancellazione di qualsiasi riferimento alla tutela dell’aborto dal documento finale del G7 del giugno scorso, incontro che ha visto la partecipazione straordinaria e non casuale del papa.
Una vera e propria guerra all’autodeterminazione accompagnata e supportata da una poderosa campagna natalità, tutta basata sulla imposizione del ruolo riproduttivo per le donne, sulla coercizione alla maternità, sulla colpevolizzazione di chi sceglie di non essere madre, sulla demonizzazione e criminalizzazione dell’aborto. E andrebbe colto in pieno il peso della relazione tra aborto e calo demografico, che i settori più reazionari ribadiscono in continuazione, e che richiama in modo sinistro la definizione che l’aborto aveva nel codice penale prima della depenalizzazione, quando era classificato come “reato contro la sanità e l’integrità della stirpe”.
In questi scenari tetri ed oppressivi le piazze transfemministe rappresentano un grido di libertà, così come lo sono le pratiche solidali di auto aiuto, di accompagnamento all’aborto, di monitoraggio dell’accessibilità al servizio sanitario, di rivendicazione e occupazione di consultori. È importante riconoscere quanto queste battaglie vadano sostenute, condivise e praticate. È importante respingere insieme alle politiche di povertà, di guerra e di repressione, anche le politiche di dominio sui corpi che pretendono di interferire con le nostre vite e le nostre scelte. Ecco perché pratichiamo e sosteniamo le lotte per l’aborto libero sicuro e gratuito.
P.N.